Per la Cassazione l’avvocato deve astenersi dalle … cause perse

Per la Cassazione l’avvocato deve astenersi dalle … cause perse
11 Novembre 2019: Per la Cassazione l’avvocato deve astenersi dalle … cause perse 11 Novembre 2019

IL CASO. Le società Alfa, Beta e Gamma, ricevuta dal consorzio Delta, per conto dell’Inpdap, l’offerta di esercitare l’opzione di acquisto degli immobili da esse condotti in locazione, si erano rivolte all’avvocato Tizio, affinché questi “valutasse l’opportunità di intraprendere un’azione legale per conseguire una riduzione del prezzo di opzione in considerazione delle cattive condizioni degli immobili”.
Ottenuto dall’Avv. Tizio il parere che una causa avrebbe avuto buone probabilità di successo, avevano quindi agito contro il consorzio Delta, l’Inpdap, la Eta e la Zeta S.r.l..
Dopo lo scambio degli atti introduttivi, avevano accolto il consiglio del difensore di rinunciare agli atti, anche per non perdere l’opportunità di esercitare l’opzione di acquisto. La rinuncia non era stata accettata dalla società Zeta, sicché, oltre a pagare all’Avv. Tizio a titolo di parcella € 5.810,20, erano state condannate a corrispondere alla società Zeta € 12.441,86 ciascuna per le spese di lite.
Le società avevano agito in giudizio contro l’avvocato, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni derivanti dall’espletamento del mandato professionale conferitogli.
L’Avv. Tizio aveva chiesto ed ottenuto di chiamare in causa la propria compagnia assicuratrice, la quale, costituitasi in giudizio, aveva dedotto la inoperatività della copertura assicurativa, la mancata denuncia del sinistro da parte dell’assicurato, l’estraneità della restituzione dell’onorario pagato dal cliente dalla garanzia prestata. 
Il Tribunale di Roma, prima, e la Corte d’Appello di Roma, poi, avevano rigettato la richiesta risarcitoria, escludendo la responsabilità del professionista, perché: “a) l’individuazione della giurisdizione risultava particolarmente difficile, in considerazione del fatto che non veniva impugnato un atto amministrativo, ma si contestava solo la determinazione del prezzo di vendita proposto in una offerta di opzione da un soggetto privato su incarico dell’Inpdap; b) la società Zeta risultava in astratto legittimata passiva e quindi era stata correttamente chiamata in giudizio quale soggetto tenuto alla manutenzione degli immobili; c) la condanna al pagamento delle spese sopportate dalla società Zeta era stata determinata dalla sua mancata adesione alla rinuncia al giudizio; d) la entità della condanna avrebbe potuto essere impugnata dalle società tenute alla rifusione”.
Le società Alfa e Beta avevano, quindi, proposto ricorso per cassazione, in base a tre motivi. 
Col primo esse avevano dedotto la “violazione e falsa applicazione degli artt. 2969 e 1218 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, perché “solo per un grave errore professionale commesso da Tizio, la società Zeta era stata chiamata in giudizio”. 
Precisamente, lamentavano che “nei confronti di tale società, infatti, non era stata formulata alcuna domanda e l’accertamento della sua posizione quanto all’esecuzione delle opere necessarie per la messa in sicurezza degli immobili era stata rinviata in un secondo momento.
La società, costituendosi in giudizio, aveva eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva ed aveva prodotto le procure rilasciatele il 24/06/2002 e il 13/03/2003 dal Raggruppamento temporaneo di imprese … per gestire, in nome e per conto dell’Inpdap, gli immobili di proprietà della Eta al fine di dimostrare la propria estraneità ai fatti di causa, stante l’assenza di qualsivoglia sua relazione con le procedure di dismissione della proprietà Inpdap e l’assenza di obblighi connessi all’esecuzione di opere.
L’Avv. Tizio non aveva disconosciuto le procure speciali da essa prodotte e non aveva formulato richieste istruttorie dirette a provarne la legitimatio ad causam. Essendo la titolarità sostanziale della situazione dedotta in giudizio un elemento costitutivo della domanda oggetto dell’onere probatorio di parte attrice, il professionista avrebbe dovuto … considerarsi gravemente inadempiente, per non aver dato alcuna dimostrazione delle ragioni della vocatio in ius del soggetto dichiaratosi non legittimato e per non avere neppure indicato le prove indispensabili per l’accoglimento della domanda.
La Corte territoriale che, invece, aveva escluso la ricorrenza di un errore da parte dell’avvocato – dato che il difetto di legittimazione della società Zeta, asseritamente fondato dalle società appellanti sulla qualità di procuratrice speciale rivestita dalla società Zeta non poteva essere verificato, mancando in atti le procure generali speciale da cui desumere gli effettivi poteri della chiamata e la conoscibilità degli stessi – avrebbe erroneamente attribuito loro, piuttosto che al soggetto asseritamente inadempiente, l’onere di fornire la prova della legittimazione passiva della società chiamata, pretendendo che esibisse le procure prodotte in giudizio dal soggetto non legittimato e atte a consentire la valutazione del giudice”.
Inoltre, le ricorrenti sostenevano che, “non avendo mai avuto conoscenza dell’esistenza e del contenuto delle procure speciali conferite alla società Zeta, non avrebbero potuto presentarle in giudizio”, esibendo a sostegno le “comunicazioni scritte circa l’andamento della causa loro inviate da Tizio, nelle quali non vi era cenno alcuno alla questione della legittimazione passiva della società Zeta. I problemi sarebbero emersi, infatti, solo nel 2005, quando l’Avv. Tizio le mise a parte del fatto che la società non aveva aderito alla definizione della controversia e che, essendo mancata un’offerta transattiva da parte loro riguardo alle spese di lite, queste erano state liquidate dal giudice”.
Col secondo motivo, le ricorrenti avevano imputato al giudice a quo la “violazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4 e la conseguente nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, perché “il Collegio d’Appello avrebbe erroneamente affermato che la contestazione rivolta a Tizio era quella di non avere adito il giudice amministrativo, trattandosi di una controversia avente ad oggetto il prezzo di stima degli immobili locati, in ragione del loro cattivo stato manutentivo, nell’ambito del procedimento di cartolarizzazione e dismissione del patrimonio pubblico. Invece, le ricorrenti si sarebbero lamentate del fatto che Tizio avesse chiesto l’annullamento dell’atto di cessione degli immobili da Inpdap a Eta”. 
Col terzo ed ultimo motivo, le società avevano, infine, imputato alla Corte territoriale l’avvenuta “violazione dell’art. 112 c.p.c. e la nullità della sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, perché “la sentenza gravata non si sarebbe pronunciata sul terzo motivo di appello, con cui avevano lamentato che Tizio  non le avesse dissuase dall’intraprendere un costoso giudizio per poi sollecitarle, con lettera del maggio 2006, riprodotta per intero nel ricorso, a rinunciare al giudizio e ad accollarsi non solo le spese della sua parcella, ma anche le spese di lite della società Zeta che non aveva aderito alla loro proposta transattiva”.

LA DECISIONE. La Cassazione, con l’ordinanza n. 21982/2019, ha ritenuto il ricorso “infondato”, rilevando, “in via preliminare” che “le società ricorrenti non avevano dimostrato il contenuto della transazione non accettata dalla società Zeta asseritamente consigliata da Tizio né le ragioni della stessa”.
Infatti, “dalla lettera che Tizio aveva inviato loro nel maggio 2006 si acquisisce solo conoscenza della ricorrenza di un accordo stragiudiziale; il contenuto non è compiutamente indicato: vi è un accenno alla possibilità di acquisire i locali al prezzo originario di offerta, senza maggiorazione degli interessi legali, previa rinuncia agli atti di causa; tuttavia, da tale comunicazione, avente dichiarata finalità di aggiornamento, non è dato percepire alcuna costrizione al raggiungimento di un accordo (tale non può considerarsi l’indicazione di un termine per addivenire alla stipula notarile dell’atto traslativo). Si dava solo atto che le controversie che avevano ritardato la materiale acquisizione dei beni potevano con certezza dirsi superate dall’accordo stragiudiziale confermato dai legali delle controparti. Non vi è alcun riferimento, invece, alle ragioni che avevano spinto le parti a raggiungere una soluzione transattiva, superando le reciproche posizioni di contrasto e non vi è alcuna prova che l’interesse alla prosecuzione del giudizio sia stata determinata dall’andamento della domanda in corso di causa e non da altre ragioni: considerato l’ampio spettro delle domande formulate in giudizio da Tizio per loro conto – a) annullare l’operazione di cessione dell’immobile dall’Inpdap alla Eta in quanto relativa ad un immobile sito in uno stabile a rischio per l’incolumità pubblica e privata; b) ordinare l’esecuzione delle opere necessarie per la messa in sicurezza dell’immobile e concedere un nuovo termine per l’esercizio del diritto di opzione, conseguente all’avvenuta esecuzione dei lavori – non può escludersi, ad esempio, che i convenuti si fossero fatti carico di eseguire tutte o parte delle opere necessarie”.
Il che, secondo il Giudice di legittimità, “rappresentava una questione fondamentale nella vicenda in esame, atteso che la parte ricorrente fonda[va] le proprie censure proprio sulla “necessità” di addivenire ad un accordo transattivo, una volta emerse le questioni di fatto e di diritto ostative al raggiungimento del risultato atteso o comunque produttive di effetti dannosi”. 
La Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha così colto l’occasione per rammentare che “la giurisprudenza di legittimità fonda l’obbligo di dissuasione da parte del difensore, invocato dalle ricorrenti, sulla ricorrenza di una domanda che risulti chiaramente inammissibile per assenza dei presupposti previsti dalla legge o completamente infondata, giacché il professionista ha l’obbligo di astenersi dalle cause perse o infondate (Cass. 12/05/2016, n. 9695). Anche ammesso che il difensore avesse accettato una causa per la quale prevedeva già dall’inizio la soccombenza dei suoi assistiti, non avrebbe potuto, poi, disinteressarsene del tutto, con il pretesto che si trattava di una “causa persa”, senza almeno attivarsi per trovare una soluzione transattiva, essendo tale comportamento comunque doveroso, allo scopo di non esporre il cliente all’incremento delle spese iniziali (Cass. 02/07/2010, n. 15717; Cass. 26/07/2010, n. 17506)”. 
Situazione che, per il Giudice di legittimità, non ricorreva nel caso di specie, perché “tanto il giudice di prime cure quanto la Corte d’Appello, nella sentenza gravata, hanno escluso che l’avvocato avesse intrapreso un’azione prima facie inammissibile e/o infondata. 
Ciò stando, se pure avesse indotto le società proprie clienti ad addivenire ad un componimento bonario della lite, avrebbe tenuto un comportamento conforme all’obbligo di tutelare i loro interessi che rischiavano di essere pregiudicati dalla prosecuzione di una controversia dalla quale poteva derivare un incremento del pregiudizio iniziale”. 
Inoltre, “l’affermazione secondo la quale l’avvocato aveva ottenuto un preliminare incarico stragiudiziale consistente nella formulazione di un parere in ordine all’utile esperibilità di un’azione giudiziale non trova riscontro nei fatti di causa (vi è solo l’affermazione assertiva delle ricorrenti a supporto di tale circostanza) e comunque va considerato che anche l’eventuale prestazione di natura consulenziale non avrebbe garantito il risultato, ma avrebbe obbligato il professionista ad offrire tutti gli elementi di valutazione necessari ed i suggerimenti opportuni allo scopo di permettere alle clienti di adottare una consapevole decisione, a seguito di un ponderato apprezzamento dei rischi e dei vantaggi insiti nella proposizione dell’azione”. 
Per invocare la responsabilità dell’avvocato sarebbe, invece, stato necessario “dimostrare che, in applicazione del parametro della diligenza professionale (art. 1176 c.c., comma 2), nell’adempiere siffatta obbligazione, egli avesse omesso di prospettare loro tutte le questioni di diritto e di fatto atte ad impedire l’utile esperimento dell’azione a causa dell’ignoranza di istituti giuridici elementari e fondamentali ovvero di incuria ed imperizia, insuscettibili di giustificazione.
Una volta avviato il processo, la responsabilità del legale è ravvisabile solo in caso di sua imperizia per aver violato o ignorato precise disposizioni di legge ovvero errato nel risolvere questioni giuridiche prive di margine di opinabilità.
Invece la scelta di una determinata strategia processuale può essere foriera di responsabilità solo se la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata (e motivata) dal giudice di merito ex ante, restando comunque esclusa in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e/o giurisprudenziali presentino margini di opinabilità – in astratto o con riferimento al caso concreto – tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute dal legale (Cass. 20/05/2015, n. 10289)”. 
Per tali ragioni, la Cassazione ha, pertanto, rigettato il ricorso.

Altre notizie